Lo scorso 10 febbraio si è spento dopo una lunga malattia Giancarlo Morbidelli, classe 1934, un personaggio estremamente noto e non solo per avere fondato la Morbidelli, ma per la sua smisurata passione per le motociclette che lo portò a mettere in secondo piano le macchine da legno per diventare uno dei più carismatici e innovativi personaggi del mondo delle due ruote.
“Io e mio fratello Alfredo eravamo molto amici di Giancarlo e con lui abbiamo avuto una lunga frequentazione”, ci racconta Adriano Aureli, personaggio che non ha bisogno di presentazioni al quale abbiamo chiesto un ricordo. “Il primo aneddoto che posso raccontarle risale a quando Giancarlo, poco più che ragazzino, vide passare una ragazza in motorino. La guardò a lungo, ma non perché era stato conquistato dalla sua avvenenza, quanto dal ciclomotore! E disse: “… un giorno ne avrò anch’io uno. Anzi, lo costruirò!”.
Era un genio assoluto della meccanica e ne diede prova creando la Morbidelli a fine anni Cinquanta, con 50mila lire che aveva chiesto in prestito a un suo zio. Le macchine da legno divennero la sua professione e ci mise tutto il suo ingegno – forse non tutti sanno che la prima foratrice al mondo degna di tal nome fu creata proprio da lui – ma le moto rimasero sempre la sua passione”.
Le sue macchine per il legno ebbero subito successo, tanto è vero che in una quindicina d’anni si ritrovò a guidare una impresa che esportava in 40 Paesi e poteva contare su 300 addetti e fu una delle prime e più significative acquisizioni di Scm: “Per me e Alfredo Giancarlo era come un fratello”, ricorda ancora Aureli. “Abbiamo fatto molta strada insieme, arrivando nel 1990 ad acquisire il 75 per cento della sua impresa, perché già da tempo aveva deciso che voleva dedicare la maggior parte delle sue energie al motociclismo: rimase il direttore tecnico della Morbidelli, oltre che socio… le sue moto venivano costruite in un piccolo reparto accanto agli spazi dove nascevano le nostre macchine e ricordo ancora quando, qualche anno dopo, ci parlò per la prima volta del progetto di una “otto cilindri” da produrre in serie limitatissima, dodici esemplari all’anno, per quegli estimatori disposti a pagarla 100 milioni, perché questo era il suo prezzo. Una moto che dimostrò tutto il suo genio”.
Aveva iniziato nel 1965 a costruirne e non smise mai: dal suo reparto corse uscirono moto che corsero nel Motomondiale dal 1969 al 1981, vincendo quattro titoli iridati. Sulle sue moto bianco-azzurre sono saliti molti grandi piloti: Eugenio Lazzarini, Paolo Pileri, Pier Paolo Bianchi, Mario Lega, Alberto Ieva, Gilberto Parlotti, Graziano Rossi (padre del nove volte campione del mondo Valentino) e Giacomo Agostini.
Amico di Enzo Ferrari, venne tratteggiato come il Davide che batte Golia, perché dalla sua piccola officina ricavata dalla fabbrica di macchine per la fiorente industria del mobile pesarese si permise di battere i grandi colossi giapponesi, Yamaha e Kawasaki in primis.
Si dice che quando iniziò a costruirle si giustificò dicendo che era un modo per fare un po’ di pubblicità alle sue foratrici, ma in realtà non avrebbe potuto vivere senza il rombo di quei motori.
Si è spento all’ospedale di Fano; lascia la moglie Augusta e due figli, Letizia e Gianni, quest’ultimo pilota di Formula 1. Di lui rimane molto, anche gli esemplari della sua 850 a otto cilindri a “V”, moto che rimane unica, esposti al Guggenheim di New York, a Bilbao, a Las Vegas. (l.r.)