Abbiamo scelto questa frase di Paolo Fantoni per titolare questo racconto della chiacchierata telefonica in cui l’abbiamo coinvolto nella sua doppia veste di imprenditore e di presidente di Epf, l’associazione europea dei produttori di pannelli.
Lo abbiamo sentito a fine aprile, quando le preoccupazioni erano ancora grandissime. Non che adesso non lo siano, ma diciamo che quella mattina in cui lo abbiamo disturbato nel suo ufficio alla Fantoni di Osoppo, uno dei “bei nomi” della imprenditoria italiana legata al mondo del legno e una eccellenza del “made in Italy” per la qualità dei suoi pannelli e dei suoi mobili per ufficio, lo scenario pareva quanto mai oscuro…
E il discorso non poteva non partire dalla situazione in azienda: “Solo 10 delle 130 persone che lavorano negli uffici sono rimaste, in media e talvolta a rotazione, alla loro scrivania. Molti hanno mantenuto la loro operatività grazie allo smartworking, per altri abbiamo dovuto fare ricorso alle ferie e alla cassa integrazione”, ci racconta Paolo Fantoni. “Le linee di produzione hanno funzionato quando le autorità ce lo hanno consentito, con alcune inevitabili “pause” nei momenti di minor forza della domanda. È innegabile che ci sia stato e ci sia tutt’ora un rallentamento generale, siamo comunque allineati a tutti quegli imprenditori che sostengono che fare delle revisioni del budget in questo momento sia da folli, non corretto, perché ancora mancano tutti gli elementi per poter valutare cosa succederà nel mercato, quali saranno i volumi e i numeri… è ancora prematuro scommettere su quello che ci attende”.
Abbiamo solo una certezza: che sia un colpo molto duro…
“Un autentico fulmine a ciel sereno: tutti noi sappiamo che potremmo dover affrontare scenari catastrofici, ma nella realtà nessuno avrebbe mai immaginato l’immanenza di questo fenomeno. Non lo avevamo immaginato nemmeno dopo aver percepito tutti i segnali di attenzione e di rischio che la comunicazione televisiva ci aveva segnalato agli inizi della pandemia in Cina. Fino alla fine di febbraio nessuno aveva la dimensione della pericolosità e delle insidie che questo virus avrebbe portato nelle nostre attività, nelle nostre vite. Lo dimostra il fatto che solo a un certo punto, quando l’Italia si è trovata in prima fila nel registrare tutti quei drammatici casi, abbiamo iniziato a pensare alle misure da adottare. In azienda di siamo subito dati da fare per accogliere le disposizioni e raccogliere ogni possibile informazione per fare tutto il necessario. Ricorderà che attorno a noi, anche in diversi Paesi europei, si guardava alla nostra drammatica esperienza con un certo scetticismo, per usare un eufemismo. In quei giorni ho scelto di muovermi personalmente e mi sono preso la briga di mandare una comunicazione a tutti i membri di Epf (European Panel Federation, ndr.), allertandoli sul fatto che non dovevano sottovalutare la situazione e piuttosto iniziare a guadagnare tempo, introducendo analoghi provvedimenti nelle loro società, perché il rischio era estremamente concreto.
Ho voluto cercare di stigmatizzare quella mentalità facilona secondo la quale “questa è solo un’influenza”, mettendo in allarme tutti i colleghi. In seguito è arrivata la presa di posizione ufficiale della federazione, che a metà marzo redasse un documento nel quale si suggerivano tutta una seria di precauzioni da utilizzare nei nostri processi produttivi”.
Dottor Fantoni, non tutti hanno però agito secondo gli stessi principi, creando di fatto anche una situazione di “concorrenza spiacevole”…
“Ci sono state scelte diverse che hanno portato anche a situazioni di chiusura delle capacità produttive molto più significative e penalizzanti in alcuni Paesi, come l’Italia, la Spagna, la Francia. Altri – fra cui Germania, Austria o Polonia – hanno continuato a produrre, fermando gli impianti solo quando non era possibile fare diversamente, dieci, quindici giorni contro le almeno quattro settimane delle linee di produzione italiane o spagnole. Ognuno ha agito secondo la propria coscienza e la storia dirà, e in parte ha già detto, chi ha fatto la scelta più sensata. Sono però propenso a pensare che alla fine lo sforzo fatto dagli imprenditori tedeschi per continuare a produrre abbia anch’esso avuto un limite, per cui oggi – dopo aver saturato i magazzini – anche loro forse si troveranno a dover fermare gli impianti per calibrare la produzione a una domanda che definirei “riflessiva”.
C’è anche da considerare cosa è successo a livello di distribuzione: noi abbiamo potuto avviare la commercializzazione il 18 maggio; in Austria i rivenditori avevano già aperto le porte di negozi e magazzini da un paio di settimane e anche in Germania i tempi sono stati diversi dai nostri. Una disponibilità al mercato che ha indubbiamente offerto situazioni differenti da Paese a Paese.
Una disparità evidente, nata da riflessioni di carattere medico, legislazioni e provvedimenti differenti e che inevitabilmente hanno determinato situazioni diverse, ma a livello di federazione europea non c’è recriminazione nei confronti di alcuno. Non possiamo però ignorare la visione della singola impresa che lamenta quanto altri abbiano potuto generare un maggior fatturato anche in questi mesi, avendo accesso ad altri mercati facilitati dalle altrui chiusure. Una dinamica che si è verificata nel mondo del pannello come in quello del mobile e in mille altri, per cui talvolta si avverte un disagio diffuso e ci si domanda come sarebbero andate le cose se il mondo produttivo europeo avesse risposto alle stesse regole. Il fatto che la Germania abbia avuto una domanda più sostenuta, tempi di chiusura degli impianti minori, maggiore libertà anche nel trasporto delle merci verso altri Paesi rappresenta in definitiva una condizione operativa migliore per l’industria tedesca rispetto a quella italiana, ma ciò non ha generato tensioni, perché è dovere della federazione europea assecondare le problematiche nazionali”.
Viene però da pensare che questa benedetta Europa unita…
“Guardi, ci sono ben altri aspetti nei quali il tema a cui lei accenna si fa molto pressante ed evidente, cose che non hanno nulla a che vedere con l’eccezionalità di questa pandemia. Penso al fatto che la Germania – intesa come nazione, non come industrie produttrici di pannelli – abbia introdotto elementi per normare situazioni e prodotti in maniera autonoma, andando addirittura a infrangere precisi protocolli e normative di prodotti marcati CE. Le garantisco che su temi come Voc, i famosi “composto organici volatili”, ed emissioni di formaldeide la nostra reazione c’è stata ed è stata importante, situazioni sulle quali molti dei membri di Epf – non solo italiani, ovviamente – sono refrattari, materie di cui abbiamo da tempo informato anche la Commissione europea.
Da alcuni mesi stiamo lavorando a una iniziativa sulla quale posso ora dirle di più, perché lo scorso 28 maggio abbiamo avviato una azione legale contro la scelta unilaterale della Germania di definire nuovi standard in materia di limiti delle emissioni di formaldeide dei pannelli (vedi box a pagina 00, ndr.). Vogliamo segnalare quanto iniziative di carattere nazionale siano lesive degli interessi della categoria e mi permetto di pensare che una presa di posizione così forte, condivisa da aziende fra loro concorrenti e di diversa nazionalità, possa essere il segno di una maggiore solidarietà”.
E da queste settimane, da questi mesi cosa abbiamo imparato?
“Siamo ancora sotto shock… è presto per dirlo. Dobbiamo capire meglio cosa è accaduto, cosa accadrà. L’intensità del cambiamento e del problema, le ripercussioni che questa situazione avrà soprattutto sul tessuto italiano sono ancora inconoscibili: le aziende e le filiere più flessibili, dotate di maggiore fantasia, ne usciranno meglio, ma per tutti sarà comunque una occasione per dimostrare la capacità tutta italiana di rinascere. Abbiamo un pesante fardello sulle spalle e dobbiamo comunque inseguire una nuova situazione di equilibrio, recuperare efficienze, rimodulando la struttura dei costi fissi con i nuovi volumi che il mercato potrà assorbire. Ci saranno conseguenze anche pesanti, ma credo in un grande rimbalzo di entusiasmo, una forte voglia di recuperare ciò che abbiamo perso: nel momento in cui tutto finirà andremo tutti a comprarci nuovi divani, torneremo nei ristoranti, nei bar, negli stadi. Nel medio termine dovremo capire dove si collocherà la domanda di beni durevoli e dove il peso di tanta cassa integrazione e di tanti posti di lavoro persi si farà sentire, ma la ripresa ci sarà, per quanto lenta e graduale”.