Quattro anni nella sede texana dell’agenzia Ice, l’agenzia per la promozione all’estero e l’internalizzazione delle imprese italiane, da otto residente negli Stati Uniti. Salvatore Grignano, in questi quasi dieci anni, ha avuto modo di osservare le varie sfumature degli Usa e del suo mercato. Dalla presidenza di Obama a quella di Trump, dalla crisi dei rapporti con la Cina all’emergenza sanitaria causata dal “Covid-19”, dalle elezioni movimento del “Black Lives Matter”. Uno sguardo privilegiato sul mercato americano che ha deciso di condividere con i lettori di Xylon International.
Com’è la situazione sanitaria americana?
“Ci sono differenze importanti tra una zona e l’altra degli Stati Uniti. Inizialmente Houston e il Texas si sono comportati bene, con i numeri dell’epidemia decisamente minori rispetto a quelli riscontrati in aree più colpite come New York. I primi di maggio, invece, è cominciata la fase di riapertura, senza limitazioni o mascherine. Così siamo passati rapidamente da 3mila a 12mila morti. Questo è stato il grande problema: aver sottovalutato la situazione sanitaria e aver considerato l’emergenza superata troppo presto, non prendendo seriamente in considerazione il rischio di una seconda ondata. Adesso i numeri sono preoccupanti e stiamo pagando lo scotto di aver calato troppo in fretta l’attenzione. Solo da luglio è diventato obbligatorio indossare una mascherina nei luoghi pubblici. Purtroppo la situazione è stata fortemente politicizzata, con le due fazioni in guerra per trarne un vantaggio elettorale. E questo è il risultato…”
Qual è la situazione macroeconomica degli Usa?
“Il quadro macroeconomico si è deteriorato inaspettatamente e molto rapidamente, con alcuni numeri che non si vedevano dalla Grande Depressione. Se consideriamo che da tre amministrazioni consecutive c’era una crescita, questi numeri fanno ancora un maggiore effetto. Sicuramente l’indice che preoccupa maggiormente è quello della disoccupazione. Prima dell’emergenza negli Usa la disoccupazione era calata sotto il 4 per cento, con punte del 3,5 per cento. In pratica era più complicato per alcune aziende trovare lavoratori piuttosto che il contrario. Invece ad aprile quest’indice è arrivato al picco del 14,7 per cento, per scendere a luglio al 10,2. Ma non preoccupa solo la disoccupazione. In seguito alle chiusure c’è stato un crollo dei consumi interni, che rappresentano il 60 per centro del Pil e la produzione ha perso circa due trilioni di dollari rispetto al quarto trimestre del 2019 (meno 33 per cento di Pil nel secondo trimestre su base annualizzata). Inoltre, secondo il Dipartimento del Commercio, nei primi sei mesi del 2020 c’è stato un rallentamento del commercio estero, iniziato nel 2019, che ha perso il 14,2 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. In particolare, con l’Ue il calo è del 13,1 per cento, mentre con l’Italia gli scambi sono calati del 18,3 per cento.
Secondo le previsioni, il calo del Pil nel 2020 sarà del 5 per cento, sempre che la situazione non degeneri nella seconda parte dell’anno. Questo risultato dipenderà da due fattori principali: il primo è il prezzo del petrolio, mentre il secondo sono le situazioni estere, se si tornerà a viaggiare o meno, se gli altri stati riprenderanno i consumi. È vero che oltre la metà del Pil degli Usa dipende dai consumi interni, ma questi due fattori sono fondamentali. In più, bisogna anche considerare che fino a luglio il governo aveva immesso fondi con aiuti economici a dipendenti e aziende, ma adesso ha rimesso la palla nelle mani dell’economia. Se si riuscirà a ritrovare un’occupazione per i neo disoccupati ci sarà una ripresa, altrimenti, in caso di una seconda ondata del “Covid-19” o di una particolare difficoltà del mercato, la situazione potrebbe addirittura peggiorare. La crisi economica derivante da quella sanitaria ha portato alla chiusura di diverse attività, soprattutto nel settore del retail, con alcune realtà che hanno abbassato la serranda a marzo e non l’hanno più tirata su. Di contro, i siti di e-commerce hanno aumentato i profitti.
Adesso una ripresa la stiamo registrando, ma le incognite sono sempre dietro l’angolo, specialmente in un anno come questo. Oltre alla pandemia, infatti, ci sono altri due fattori che influenzeranno il mercato. Le elezioni previste a novembre e la crisi dei rapporti con la Cina, una guerra economica che non ha risparmiato nessun settore produttivo”.
Qual è la situazione del settore legno-arredo?
“Dobbiamo premettere che gli Stati Uniti sono il primo importatore mondiale di macchine per la lavorazione del legno, con un mercato che può essere quantificato in circa 1,8 miliardi di dollari e la domanda di prodotti legata al mercato delle costruzioni è altamente profittevole e in espansione da circa 8 anni. Il settore della meccanica ha subìto un forte contraccolpo e le macchine del legno hanno registrato un calo nelle importazioni del 50 per cento. Bisogna considerare che ci sono due possibili “sbocchi” per l’industria della lavorazione del legno: l’edilizia e la produzione di mobili d’arredo. C’è stata una battuta d’arresto iniziale in campo edile, con diversi investitori che hanno deciso di bloccare o rimandare i progetti in attesa di capire il decorso della situazione. Questo blocco ha influito su tutta la filiera produttiva, dalla prima lavorazione del legno, con alcune segherie che hanno chiuso o sono state assorbite da realtà più grandi, alla produzione di mobili. Adesso che l’edilizia è ripartita grazie al calo dei tassi sui mutui sotto al due per cento, che per gli Stati Uniti è eccezionale, sono aumentate le vendite di immobili e l’intera filiera del legno sta rialzando la testa”.
Vendite di immobili aumentate fuori dalle grandi città…
“Stiamo vivendo, per la prima volta dopo decenni, uno spopolamento delle grandi città in seguito all’epidemia. Tra smart working e distanziamento sociale c’è una tendenza a migrare “in campagna” e questo porta un calo nei prezzi delle case, affitti e vendite, nelle grandi città. Un cambiamento così repentino non si era mai visto e questo aumenta il margine di errore di ogni previsione, dato che tutto dipenderà dai tempi di questa epidemia”.
Quali sono gli stati americani più attenti ai prodotti europei e in particolar modo a quelli italiani?
“Bisogna ammettere che è difficile tenere un tracciamento preciso dei prodotti, ma gli stati più attenti alle tecnologie europee son chiaramente quelli del nord, soprattutto nella zona dei grandi laghi, dove si trova il 28 per cento degli stabilimenti, dove sono localizzati diversi impianti di prima lavorazione data la presenza di tante foreste, una regione strategica per l’alta concentrazione di attività edilizia e per vicinanza ai boschi del Canada. Anche nel sud ovest, tra California e Oregon, c’è una grande domanda e troviamo, infatti, il 25 per cento degli stabilimenti, rendendola un’altra regione strategica per la sua vicinanza ad aziende produttrici di mobili. A livello di singoli stati registriamo una forte domanda dal Winsconsin (13 per cento di stabilmenti) e dall’Oregon (4 per cento).
Le macchine più importate sono gli impianti per la prima lavorazione, seghe, frese, macchine per curvare e le presse. Il mercato statunitense chiede di abbattere la quantità del lavoro e il costo del lavoro e la richiesta maggiore è quella di poter abbattere i costi del lavoro e, di conseguenza, si cercano molte macchine a controllo numerico. Considerando il costo del lavoro negli Stati Uniti le aziende non possono desumersi dal cercare di abbattere i costi cercando macchinari sempre più sviluppati tecnologicamente che gli consentano di non dover cercare troppa manodopera. Come dicevamo all’inizio, tante aziende faticavano addirittura a trovare i lavoratori, se una macchina cnc permette di ridurre il numero del personale richiesto chiaramente l’azienda la cerca”.
Qual è la situazione delle fiere?
“In questo momento la situazione è ferma. Tutte le fiere del 2020 sono state cancellate o riprogrammate più lontane nel tempo, per cercare di comprendere quali fossero i possibili sviluppi dell’epidemia, sperando di poterle recuperare. E invece, alla fine, ci si è dovuti rassegnare a questa situazione di blocco generale. È successo per Iwf, l’International Woodworking fair, di Atlanta. Diverse organizzazioni hanno optato per uno spostamento sul digitale, creando degli ibridi con ore di conferenze e webinar, una parte dedicata ai marketplace delle aziende, dove esse potranno mettere in mostra i loro prodotti. Alcuni marketplace sono stati estesi fino a 12 mesi perché l’idea generale è quella di estendere gli eventi nel tempo, diluendoli e rendendo più costante la presenza digitale, magari creando laboratori e luoghi d’incontro virtuali sul lungo periodo. Qualcuno ci riuscirà, qualcuno no. Vedremo.
Le fiere cambieranno, diventeranno delle fiere 2.0, con una presenza sempre maggiore della componente digitale. Rimarrà ovviamente la presenza fisica, ma questa migrazione sul digitale ha causato un cambiamento che secondo me sarà permanente. Non si tornerà più al vecchio concetto di fiera. Saremo sempre più digitali”.
Quali sono i consigli di Ice per le aziende italiane?
“Digitalizzare, migliorare la presenza online e aumentare la propria visibilità sul web. Questo sarà il nuovo campo di battaglia. I grandi marchi lo fanno già, riuscendo a mettere in atto una presenza massiccia sul web. Per le aziende più piccole, invece, con minore risorse noi siamo qui: l’Ice ha messo a disposizione le proprie risorse per aiutarle. Abbiamo una piattaforma, machinesitalia.org, su cui si può creare la propria pagina, mettere in mostra i propri prodotti e creare una vera e propria rete di contatti. Se qualche anno fa lo spostamento sul digitale era solo una tendenza, adesso è diventato una necessità. E perdere il treno in questo momento può rivelarsi irrecuperabile”.